Eppure la cercava. Aveva deciso che gli sarebbe mancata nel momento in cui aveva compreso che la sua vita era solo più un contenitore per la sua assenza. Aveva un’ultima immagine del giorno prima della sua partenza: passeggiava per le stanze vuote, mentre lei saliva e scendeva la scala esterna con le ultime scatole e gli chiedeva “ma che fai lì dentro!? Me la dai una mano!?”
… darle una mano ad ucciderlo??! Stava, invece, lì dentro al vuoto buio, trascinando i piedi per alzare volutamente la polvere e stupendosi poi che ce ne fosse così tanta nascosta dietro le sue cose; si era chiesto quanta di quella polvere, di quei micro organuli svolazzanti fossero parte anche della sua presenza lì. Quanto amore sarebbe potuto uscire dai loro corpi per mischiarsi in questa danza di schegge luminosissime e volteggiare per sempre in quelle stanze? E quanto sarebbe durato questo per sempre? Sarebbero stati i fantasmi di un qualcosa che è accaduto, taciuto, falsamente dimenticato, silenziosamente sofferto o giocato, ma che rappresentava loro, lei, lui. Guardava giù dalla scala la sua figura muoversi intorno ad un furgone, parcheggiato come parcheggiava il suo suv solo qualche giorno prima che lo portasse al carrozziere in conto vendita. Gli chiese se lo voleva, ma il suo nome sul libretto avrebbe richiesto troppe spiegazioni. È questa, forse, la vera infelicità che li ha accompagnati: non potersi raccontare, non poter far altro che lasciare che tutto macerasse dentro il cuore, emettendo gas tossici che, prima o poi, avrebbero finito per intossicare ed uccidere ciò che restava.
Il furgone che ripartiva con un cenno di saluto, lei che chiudeva il cancello senza più mettere il catenaccio, proiettando un’ombra diagonale indefinita lungo il tramonto, il tempo correva, correva, non lo lasciava respirare, non gli avrebbe più permesso di raggiungerla. Gli chiese di accompagnarla al B&B. Lì gli disse che aveva da fare una doccia, che era piena di polvere, stanca, e che avrebbe cenato e si sarebbe messa a letto, dopo aver telefonato al fratello. Di tutte le cose che gli disse capì quella che, invece, non disse affatto, la più ovvia: doveva andarsene. Con la promessa che si sarebbero visti al solito bar nel pomeriggio dopo e che alle 15 l’avrebbe trovata lì. Lui manteneva i patti, non le chiese come ci sarebbe arrivata da dove l'aveva lasciata ... ma ne sarebbe valsa la pena saperlo? Avrebbe cambiato qualcosa?
Nel tragitto in auto verso casa, ed anche dopo, non fece che immaginarla a letto con qualcuno: e non gli era mai successo. Così percepì la bassezza in cui stava sprofondando quel sogno di fango che avrebbe voluto esibire al mondo come un bene prezioso e che, forse, non lo era più. Il pomeriggio successivo la trovò lì che lo aspettava ... al telefono, come al solito. Colse i saluti alla fine della sua telefonata in italiano, non erano teneri, ma certo neppure di addio. Con lui ebbe un altro tono: “prendiamo qualcosa? O ci togliamo da qui? Vuoi fare qualcosa, vuoi …” quel “vuoi fare qualcosa” sapeva di una prostituta che, salita in auto, ti chiede cosa vuoi fare, senza rinunciare a farti capire che, comunque, devi spicciarti a decidere. Si sentì offeso, a disagio, non trovava quasi il coraggio di alzare gli occhi verso i suoi. Non voleva fare sesso con lei, fosse anche per l’ultima volta: gli sarebbero bastati pochi baci e poche carezze sui capelli, che gli tenesse ancora le mani e gli parlasse ma, più di tutto, che gli assicurasse che sarebbe tornata presto.
L’aveva fatto un sacco di volte ed ogni volta percepiva la certezza del suo ritorno che adesso, invece, era venuta meno ... lei andava via per sempre. Prese un caffè, poi un pacchetto di gomme alla menta e lei un succo dicendo “non ho neppure mangiato oggi, ma non ho fame. E tu? Vuoi qualcosa?” le rispose che andava bene così. Lei si alzò a pagare e lui la lasciò fare, gli piaceva vedere la sua camminata elegante verso la cassa e il suo armeggiare nelle borse gigantesche che portava con sé: sembrava ci stesse tutta la sua vita. Aveva un doppione di tutto, meno che delle chiavi di casa ... avrebbe dovuto, visto che le dimenticava dappertutto. Ma ora non sarebbe più servito e lui aveva ancora le sue copie. Salirono in auto.
Lui: “Devi fare qualche commissione? Se vuoi approfittane ...”.
Lei: “Voglio che mi porti a stare sola con te, in un bel posto, dove si possa vedere un bel panorama, come mi piace a me …”
Era così dolce quella frase sbagliata, quel “come mi piace a me”, che non gliela fece mai notare, gliela lasciò dire sorridendo. La portò poco più avanti, in un luogo in cui il pomeriggio, durante la settimana, non c’è mai nessuno. Si ripeteva di non lasciare andare lacrime a sproposito e pianse, lo pregò di non farla piangere e la fece piangere, gli ultimi baci erano salati di lacrime e tristezza.
Finiva così, dopo due ore di silenzio, col viso da sciacquare alla prima fontana per ridurre la tumefazione del pianto negli occhi, con l’orgoglio che le ha impedito di risalire in auto con lui e di girarsi a guardarlo passare, con i cuori lacerati e la fine sotto i piedi.
Lui filmò quel momento, i suoi passi, il suo giubbetto di pelle color senape, i suoi jeans blu scuri e le sue Converse grigie, i suoi capelli (di nuovo castani) sul viso …
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